Dentro quella bottiglia c’è davvero extravergine? Il test che mette in dubbio l’etichetta

Un’analisi indipendente condotta in Svizzera mette in discussione le etichette e spinge i consumatori a non fidarsi solo dei marchi noti

L’etichetta dice “olio extravergine d’oliva”, ma quello che c’è dentro la bottiglia non sempre corrisponde alle aspettative. Profumi verdi, sapori intensi, richiami alla dieta mediterranea: tutto bello finché non arrivano le analisi sensoriali indipendenti. In Svizzera, un test condotto dal mensile K-Tipp e dalla trasmissione Kassensturz, in collaborazione con il panel specializzato SOP della Hochschule di Zurigo, ha analizzato 13 oli acquistati nei supermercati. Il risultato ha premiato alcuni marchi, ma ha anche bocciato prodotti venduti come extravergini che, a detta degli esperti, non lo sono affatto.

L’indagine, svolta in assenza di pressioni commerciali, ha valutato parametri come aroma, gusto, difetti sensoriali e conformità alla categoria extravergine. Alcuni dei prodotti testati sono presenti anche nei supermercati italiani, e proprio per questo i risultati diventano rilevanti per chi acquista abitualmente olio confezionato.

Il quadro emerso ha lasciato spazio a riflessioni: tra marchi promossi, prodotti “borderline” e veri e propri bocciati, l’etichetta “extravergine” perde parte del suo significato originario. E il consumatore si ritrova, ancora una volta, senza strumenti chiari per orientarsi.

I risultati del test svizzero: pochi promossi, tanti dubbi e qualche brutta sorpresa tra gli scaffali

Dall’indagine emergono differenze nette. Solo due prodotti su tredici hanno ottenuto la valutazione “molto buono”, rispettando tutti i criteri richiesti per un vero extravergine. Si tratta del Manor Bio e dell’olio Iliada, che hanno presentato un profilo organolettico equilibrato, senza difetti e con sentori vegetali coerenti. Note di carciofo, mandorla, fruttato verde: i descrittori classici del buon olio erano presenti. Ma il resto del campione? È qui che la situazione si fa complessa.

Alcuni marchi presenti anche in Italia sono stati giudicati non idonei. Il Primadonna Bio, venduto nella catena Lidl, è stato descritto come “muffoso e fangoso”, e secondo il panel non merita la definizione di extravergine. Stessa sorte per l’olio Ybarra, anch’esso escluso dalla categoria per scarsa qualità sensoriale. E non parliamo di oli sconosciuti: si tratta di prodotti largamente diffusi, pubblicizzati come sani, ma che alla prova del bicchiere non rispettano i parametri previsti.

Olio di oliva
In pochi tra gli analizzati a ricevere l’ok-popcornlab.it

Al centro dell’indagine anche casi intermedi. L’olio Chiarello, con un prezzo vicino ai 15 euro al litro, ha ottenuto una sufficienza appena raggiunta. Un risultato che fa riflettere, visto il costo elevato. Dimostra, ancora una volta, che prezzo alto non significa qualità certa, almeno nel mondo dell’extravergine. Altri marchi si sono posizionati in zona neutra, come il Boi Natura (distribuito da Aldi), il Monini Classico e il Bertolli. Prodotti che non eccellono, ma che restano al di sopra della soglia minima.

Questi esiti rimettono in discussione una convinzione diffusa: che l’olio etichettato come “extravergine” sia sempre sinonimo di eccellenza. Il test dimostra che l’etichetta non basta, e che le certificazioni non sono tutte uguali. Le bottiglie in vendita raccontano una storia, ma quella sensoriale, fatta di profumi, gusto e coerenza, la racconta solo chi le apre e le assaggia.

La lezione per chi compra: fidarsi del palato e conoscere la vera identità di un extravergine

L’olio extravergine è un alimento, non un semplice condimento, e la differenza si sente. Il messaggio che arriva dal test svizzero è chiaro: serve consapevolezza, non abitudine. Chi acquista olio deve imparare a leggere oltre la superficie. I profumi di erba tagliata, mandorla, carciofo, la nota amara e piccante bilanciata, non sono accessori: sono elementi obbligatori per definire un extravergine autentico.

Il test non suggerisce di diventare sommelier, ma ricorda che il consumatore può e deve allenare la propria memoria sensoriale. Quando un olio è piatto, inodore o, peggio, presenta odori sgradevoli, è un campanello d’allarme. E se l’etichetta riporta la dicitura “miscela di oli comunitari e non comunitari”, o manca l’indicazione del frantoio e della filiera, qualche domanda è legittima.

Chi cerca qualità dovrebbe preferire produttori con filiera corta, presenza sul territorio e tracciabilità certa. Il test non vuole demonizzare il mercato industriale, ma evidenziare le zone grigie. Anche nei supermercati italiani circolano prodotti validi, ma il numero di oli che non rispettano lo standard minimo resta preoccupante.

Un altro aspetto importante è la conservazione: anche un olio buono può peggiorare se esposto alla luce o al calore. Ecco perché il colore della bottiglia, la scadenza, la posizione sugli scaffali contano. Un extravergine vero ha un profilo vivo, mutevole ma riconoscibile. Quando non lo è, l’etichetta mente, anche se nessuno se ne accorge.

Alla fine, il messaggio del test è diretto ma utile: non serve fidarsi solo della marca o della pubblicità. Serve capire cosa si cerca da un olio. Perché, se è vero che in cucina fa bene alla salute, allora vale la pena trattarlo come un ingrediente da conoscere, non da subire. Soprattutto se dentro quella bottiglia, profumata e promettente, c’è qualcosa che extravergine non è affatto.